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tovagliolo. Alzò lo sguardo e vidi che lo spingeva senza nessuna cautela nel campo visivo di Manlio. Di nuovo aveva quella faccia sfrontata. Manlio mi colpì con il gomito. «Mi guarda...» sibilò dentro un greve sorriso che gli gonfiava le mascelle. «Sta sola, invitiamola, no?» E prima che io possa trattenerlo, sempre che ne abbia l'intenzione, lui è già in piedi, e senza smettere quel sorriso da scimpanzé la raggiunge. Gli altri intorno ridono, sono tutti un po' brilli. Vedo Italia che scuote la testa, si alza, indietreggia, urta contro il carrello dei dolci, poi si allontana. Manlio si risiede accanto a me, mette mano all'accendino d'oro. «Da lontano era volgare» dice, «da vicino invece è brutta.» Lei è sul letto. Sfoglia un depliant dell'albergo. «Chi era quel cafone?» dice, senza sollevare la testa. «Un chirurgo ginecologo, cafone.» Ho mangiato bene, ho bevuto bene, ho voglia di fare l'amore. Ma Italia resta troppo tempo in bagno, e quando esce non viene a letto, prende la sedia e si mette vicino alla finestra, guarda la corte interna, ha il viso ingiallito dalla luce che sale da lì, sta aspettando che la fontana si spenga. Italia ha preparato dei panini per il viaggio, è scesa a comprare il formaggio, il salame, poi ha spaccato il pane sul letto. Mi sono svegliato che raccoglieva le briciole con la mano. Accanto all'ascensore ha salutato le cameriere, si è fatta lasciare gli indirizzi, le ha strette come sorelle. In macchina, durante il viaggio di ritorno, parliamo poco. A un certo punto Italia dice: «Ti vergogni di me, vero?». Lo dice senza guardarmi, buttata dalla sua parte, mentre fissa la strada. La sua borsa patchwork è colma di piccoli barattoli di miele e confetture della prima colazione che lei ha conservato ogni mattina. Sorrido, allungo un braccio e sistemo lo specchietto retrovisore. Ho la testa occupata da pensieri farraginosi, che si mescolano tra loro senza nessun nesso preciso. Stamattina Elsa ha telefonato, lo squillo mi ha raggiunto in camera, avevo già i bagagli pronti, pensavo fosse la reception, così ho risposto senza cautela. Italia ha detto qualcosa, qualcosa legata al suo documento, si era scordata di farselo restituire. Tua madre ha sentito la sua voce. «Chi c'è lì con te?» Ho detto che era la cameriera, che la porta era aperta, che stavo andando via. Ho alzato il tono della voce. «Perché ti arrabbi?» «Perché ho fretta.» Poi le ho chiesto scusa. Lei ha detto ancora qualche altra cosa, la sua voce era leggermente cambiata. E mentre guido penso che non sono più certo di quello che faccio. Lascio Italia davanti al palazzo occupato, le raccolgo una mano e gliela bacio. Ho fretta di separarmi da lei, forse se ne accorge. Sono gentile, scendo per prendere la sua valigia nel bagagliaio, ma quando scompare nell'androne, risucchiata da quel cattivo odore, mi sento sollevato. Non resto un attimo di più. Quel posto stamattina mi sembra terrificante. Vado direttamente in ospedale, sprofondo nel mio mestiere con precisione. La strumentista è un po' incerta, dev'essere una nuova, mi passa i ferri senza forza. Mi arrabbio. Una pinza le cade dalle mani. Con un calcio scaravento quella pinza dall'altra parte della camera operatoria. Nella casa al mare tua madre comincia a raccogliere le sue cose, l'estate è quasi finita. Sono seduto in giardino, guardo il grande e il piccolo carro, la Stella polare. Mi raggiunge, ha un cardigan posato sulle spalle e un bicchiere in mano. «Vuoi qualcosa da bere?» Scuoto la testa. «Cos'hai?» dice. «Niente.» «Sei sicuro?» L'autunno arriverà, il mare diventerà grigio, la sabbia sporca, il vento la farà volare, la casa sarà già chiusa. Elsa sente nelle spalle quel piccolo assaggio di malinconia. A letto si stringe a me, vuole fare l'amore. «Vuoi già dormire?» Non mi sposto, rimango dalla mia parte: «Ti dispiace?». Le dispiace. Smette di baciarmi, ma resta a respirarmi addosso, con intenzione. Il soffio carico del suo respiro mi allontana dal sonno. «Scusami, sono stanchissimo...» Mi volto, la sua faccia è ferro nel buio. Il suo corpo fruscia sul lenzuolo e si allontana dal mio. Ora mi dà la schiena. Aspetto. Non voglio che sia triste. Allungo un braccio verso di lei, mi scaccia con un lieve moto della spalla. «Dormiamo» dice. L'indomani mi sveglio tardi. Trovo Elsa in cucina, indossa la sua vestaglia di seta cruda. «Ciao» dico. «Ciao.» Mi preparo la macchinetta del caffè, la metto sul fuoco e, mentre aspetto che il caffè esca, mi siedo. Mia moglie è alta, le sue spalle sono un trapezio perfetto, due linee oblique che corrono fino alla strettoia della vita. Sta sistemando dei fiori dagli steli lunghi. «Dove li hai presi?» «Me li ha regalati Raffaella.» È ancora arrabbiata, lo capisco da come muove le mani, gesti sbrigativi che hanno il solo intento di ignorarmi. Da quanto tempo non le regalo dei fiori?, penso. E forse anche lei sta facendo lo stesso pensiero. Si è infilata i capelli dietro le orecchie. È contro la finestra, da dove penetra una luce vivida, appena soffocata dal cotone della tenda. Le guardo il profilo, le sue labbra scolorite sono due bolle di carne burbera. Ci sono molti pensieri per me in quelle labbra, forse contro di me. Mi alzo, mi riempio una tazzina e bevo. «Vuoi un po' di caffè?» «No.» Mi servo un'altra tazzina e bevo anche quella. Elsa si è tagliata. Ha lasciato cadere le forbici sul tavolo e si è portata il dito ferito nella bocca. Mi avvicino a lei. «Non è niente» dice. Ma io le prendo la mano e la spingo sotto il getto dell'acqua.
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