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meritarmi degli elogi. Protestai, confuso: Ma se ho perso una partita con il vantaggio di una regina! E per di più giocando con lei che non poteva vedere la scacchiera... . Tabori fece un gesto con la mano come per minimizzare la cosa. Oh: per quello... Non vuol dire nulla. Io la scacchiera la vedo nella mia mente come tu la vedi davanti a te. E per quel che riguarda il vantaggio della regina, be', potrò sembrarti paradossale, ma devo dire che il vantaggio, in quel caso, era tutto mio . Non capisco... . Vedi, il gioco degli scacchi, o meglio: la disposizione dei pezzi nel gioco degli scacchi assomiglia a quella dei mobili in un appartamento nel quale tu vivi da molti anni: una poltrona qui, una sedia là, il tavolo al centro della stanza... Ma se improvvisamente la posizione di questi oggetti viene cambiata, o un mobile viene tolto dallo spazio in cui si trovava da tanto tempo, ecco che ti sentirai a disagio. Abituato a muoverti in uno spazio conosciuto, continuerai a farlo come se tutto fosse ancora al suo posto, e prima o poi finirai per inciampare in una console che non doveva trovarsi in quel punto, o cadrai a gambe levate per aver cercato di sederti su una poltrona che è stata spostata altrove. Lo svantaggio per te è stato quello di dover giocare con i tuoi pezzi disposti come se la mia regina fosse ancora presente: hai fatto le stesse mosse di sempre, senza pensare che questa figura era stata tolta dalla scacchiera, e che potevi attaccarmi in maniera diversa; ma tu non te ne sei neanche accorto. Inoltre, pensando che io non vedessi il gioco, hai tentato più volte di indurmi in tranelli puerili, senza pensare che io, invece, la scacchiera l'avevo sotto gli occhi né più né meno di come l'avevi tu. Credo però che se dovessimo ripetere una partita del genere le cose andrebbero diversamente . Nella mia posizione di discepolo ritenni opportuno restarmene in silenzio. Lo sai da quanti anni non gioco più a scacchi? mi chiese dopo una lunga, lunghissima pausa. Non saprei... . Egli mi confidò allora che quella contro di me era la prima partita che giocava da più di quarant'anni. Stentai a credergli, anche se in realtà né io né altri l'avevamo mai visto impegnarsi contro un avversario in uno scontro diretto. Non c'è nulla che ci avvicini di più a una persona quanto il condividerne un segreto. Ma il mio amor proprio, già così ampiamente gratificato, ricevette dalle parole di Tabori un ultimo, insospettato, dono. E ora mi disse voglio riprendere a giocare. Ma sarai tu a farlo al posto mio . Detto questo, Tabori si assentò per qualche minuto. Quando ritornò era vestito di tutto punto e aveva indossato il pastrano. Vieni, disse c'è ancora qualcosa da fare. Qualcosa che devo farti vedere. Non ci impiegheremo molto: fra due ore saremo di ritorno . Boris ci stava aspettando al volante di una vetusta Mercedes con il motore acceso. Sedemmo sul sedile posteriore e la macchina partì sotto la pioggia. Non riuscivo a immaginare dove stessimo andando, né osavo chiederlo. Dopo un lungo silenzio, Tabori mi chiese a bruciapelo se avessi mai visto un morto. Quella domanda mi raggelò. No, risposi, non mi pareva di averlo mai visto, un morto. Non hai mai assistito a nessun funerale? . Dissi che una volta, da bambino, avevo seguito un corteo funebre. Quello dei tuoi genitori? . No. Si era trattato, per quel che ricordavo, della morte di un lontano parente. Al funerale dei miei genitori non mi avevano fatto assistere. Ero troppo piccolo, e mi si volle nascondere la tragedia per un certo tempo. Fu poi mia nonna a dirmi, con le dovute cautele, che i miei genitori erano periti in un incidente; ma questo forse un anno dopo la loro scomparsa. L'automobile guidata da Boris era uscita dal Ring e si stava immettendo nel traffico della Lazarettgasse, la strada che porta verso l'ospedale di Vienna. Pensai che andassimo a far visita a qualcuno, forse a un ammalato grave, un parente o un amico di Tabori. Non ci fermammo, però, proseguimmo diritti, costeggiando per un pezzo le mura esterne dell'istituto, per aggirarle infine, immettendoci in una strada senza uscita che percorremmo fino in fondo: la macchina si fermò davanti a un edificio basso di mattoni con inferriate alle finestre e un grande portone. C'era qualcuno ad attenderci, un uomo anziano, di una magrezza impressionante, il quale portava un camice grigio che gli cadeva addosso come fosse stato appeso a una gruccia. Scendemmo solo Tabori e io. Entrammo attraverso una porticina ritagliata nell'angolo in basso del massiccio portone. Passammo sotto un androne e attraversammo di corsa, sotto gli scrosci di pioggia, uno stretto cortile, per ripararci sotto un altro androne, del tutto simile al primo. Scendemmo una lunga scala e imboccammo un corridoio, e poi un altro, e un altro ancora, tutti scarsamente illuminati da fioche lampade fluorescenti, disposte tanto distanti l'una dall'altra che in certi punti ci trovavamo a camminare quasi al buio. In quel labirinto di corridoi sotterranei, chiunque si sarebbe perso senza una guida. Mi accorsi che l'aria era impregnata di un odore acuto di formaldeide: non c'era più bisogno di chiedere dove ci trovassimo. Guardai Tabori, che mi restituì un'occhiata rassicurante. In fondo all'ultimo e più lungo corridoio, che percorremmo con passo piuttosto veloce, c'era una porta. L'uomo la aprì con una chiave che aveva in tasca e ci fece entrare in un'ampia sala piastrellata sino al soffitto, altissimo, con delle grate che si aprivano alla sommità delle pareti, confermando la mia soffocante impressione di trovarmi parecchi metri sottoterra. In contrasto con l'assoluto silenzio che quel luogo sepolcrale sembrava esigere, ogni rumore (il richiudersi della porta di ferro, i nostri passi sul pavimento) si amplificava a dismisura su quelle alte, nude pareti. Seguimmo l'uomo, che ci portò in fondo alla sala, dove c'era un lettino cromato, coperto da un lenzuolo grigio sotto il quale si disegnava l'inerte profilo di un corpo. Lì accanto, un carrello
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